“Come sulla terra si ricrea il Big-Bang” di Duccio Alderotti

Abbiamo già discusso delle particelle che danno forma al nostro universo, delle loro caratteristiche, della loro natura e del loro raggruppamento nel Modello Standard. Ma come fanno gli scienziati a carpire informazioni da qualcosa di così piccolo e sfuggevole? In enormi tubi, circondati dai magneti più potenti mai creati, queste particelle vengono accelerate e fatte scontrare: negli acceleratori di particelle.

Come sempre, 2 pillole sulla storia e l’evoluzione di queste macchine. Il primo modello venne ideato e costruito dallo studioso Robert J. Van de Graff nel 1931, e sfruttava un singolo campo elettrico con una differenza di potenziale di decine di milioni di volt per accelerare ioni carichi. Si ebbe un ulteriore sviluppo con l’avvento del modello lineare, che impiegava diverse unità di accelerazione attraversate da un campo elettrico oscillante, che quindi permetteva di accelerare particelle in fase con esso; il fascio che ne fuoriusciva era quindi intermittente e non continuo. Successivamente, con il bisogno di raggiungere energie più elevate, venne ideato il ciclotrone, primo modello circolare, composto da 2 elettrodi cavi e semicircolari che acceleravano in un moto a spirale uscente una sorgente di particelle posta al centro dell’apparecchio; una variante di questo modello, la prima a vantare la tipica forma ad anello, venne specializzata nell’accelerazione di elettroni, prendendo il nome di betatrone (dai raggi beta, con cui erano identificati gli elettroni). Le ultime importanti evoluzioni ingegneristiche si hanno nel dopoguerra, dove si comprende che, approcciando le particelle la velocità della luce, esse rallentano e bisogna quindi anche diminuire la frequenza del campo elettrico accelerante (gli acceleratori dotati di questa funzione sono detti sincro-ciclotroni), e la vera utilità della forma ad anello, che, supportata da potenti magneti, permette di stabilizzare il fascio di particelle e poterlo accelerare per un tempo maggiore, nonché farlo scontrare con un altro accelerato nel verso opposto, invece che contro un bersaglio fermo.

Riassumendo, potenti campi elettrici vengono utilizzati per accelerare le particelle, mentre campi magnetici ne controllano la traiettoria, sia essa curva o rettilinea.

Adesso, oltre ad aver scorso l’evoluzione di 40 anni di ingegneria, abbiamo capito come gli acceleratori di particelle si basino sul principio degli urti; questo perché, considerando la massa equivalente all’energia, accelerando particelle e fornendogli quindi un’elevata energia cinetica, si possono creare urti che danno vita a particelle figlie con una massa ed un’energia superiori, per questo spesso instabili, che decadono in altre particelle più stabili. Analizzando queste ultime, i ricercatori riescono a carpire informazioni e studiare caratteristiche riguardo ogni tipo di particella sconosciuta.

Tuttavia, non abbiamo ancora risposto al nostro quesito: come si analizzano particelle così sfuggevoli? Ricordiamoci che vengono sparate a velocità spaventosamente prossime a quella della luce. Entrano qui in gioco i rilevatori di particelle. A chiunque sia passata sotto gli occhi l’immagine di un moderno acceleratore avrà un’idea delle dimensioni dei rilevatori più sensibili. Nonostante le loro dimensioni e complessità, la teoria dietro il loro funzionamento non è difficile, poiché dobbiamo ricordarci che stiamo trattando con particelle dall’elevatissima energia, e che quindi causeranno interazioni con la materia che attraversano. I rilevatori più semplici ed antichi sono la camera a nebbia, ideata nel 1899, e la camera a bolle appena successiva, che sfruttano il principio di instabilità della materia in alcuni stati. Infatti, nel caso della camera a nebbia un vapore supersaturato, ossia raffreddato sotto il suo punto di condensazione, e nel caso della camera a bolle un liquido pressurizzato e riscaldato sopra la sua temperatura di ebollizione, forniscono un terreno molto instabile, in cui particelle molto veloci fanno collassare la materia in stati meno energetici, formando in un caso una scia di goccioline di vapore condensato (nebbia, appunto) e nell’altro una scia di bolle. Si hanno poi rilevatori che sfruttano l’effetto Cherenkov, detti scintillatori perché appunto producono luce, anche se non sempre visibile, quando attraversati da particelle ad alta energia. Per quanto riguarda l’effetto Cherenkov, un buon modo per immaginarlo è con una barca su un fiume: come la barca si muoverà, lascerà una scia alle sue spalle a forma di V. Quando lo fa una particella molto veloce, al posto della scia sull’acqua si ha una scia energetica che si traduce in una luminosità soffusa nelle vicinanze della fonte. È per questo che in molti documentari sull’argomento dell’energia nucleare molti reattori immersi in acqua appaiono illuminati di blu, ed anche i coniugi Curie sperimentarono quest’effetto quando lavorarono con i primi campioni di Radio. Invece, per quanto riguarda i rilevatori più moderni e sensibili, si sfruttano principi derivanti dalla nostra, almeno parziale, comprensione della meccanica quantistica, implementando particolari fenomeni elettronici che si verificano nei gas e nei semiconduttori; sfruttando la capacità degli elettroni di migrare e formare doppietti quando sottoposti all’energia di particelle accelerate, si formano tracce ionizzate visibili nel caso dei semiconduttori o piccole anomalie elettriche misurabili nel caso dei gas. L’ultimo tipo di rilevatore che analizzeremo è del tipo più sommario, capace solamente di misurare l’energia delle particelle che lo colpiscono a discapito della tipologia: è detto bolometro e funziona sullo stesso principio di un termometro. Utilizzando un piccolo campione di un materiale conosciuto, ad esempio un filo di platino, si può con precisione misurare l’incremento di temperatura, e quindi di energia, al passaggio delle particelle; rapportando questo dato con le caratteristiche del materiale, si può avere una buona stima dell’energia rilasciata dalle particelle stesse.

Troppe nozioni? Tranquilli, la parte complessa è finita. Adesso parleremo un po’ della suddivisione dei vari tipi di acceleratori, e alla fine troverete qualche piccolo trivia.

Possiamo individuare quattro parametri principali con cui catalogare queste macchine: il metodo di accelerazione, il tipo di particelle accelerate, la traiettoria di queste ultime e le energie raggiunte, anche se il metodo di accelerazione rispecchia la traiettoria. Come detto, negli acceleratori la forza motrice è fornita da potenti campi elettrici; nei primi modelli si ricorreva ad un campo elettrico statico, con differenze di potenziale nell’ordine di decine di milioni di volt, poi si è passati a campi elettrici alternati, capaci quindi di imprimere la forza motrice più volte. Con questi due metodi si può però accelerare un fascio solamente in linea retta. Con l’ausilio di magneti invece, dato che ogni carica elettrica in movimento possiede un proprio campo magnetico, il fascio può essere incurvato, formando una spirale come nei ciclotroni e sincro-ciclotroni, o un anello, come nei moderni sincrotroni. Per quanto riguarda invece il tipo di particelle accelerate, in linea teorica ogni particella carica (ione poliatomico, nucleo atomico, elettrone ecc.) può essere sparata tramite l’azione di campi elettrici; tuttavia, la maggioranza degli acceleratori oggigiorno si vede impiegata in ricerca medica o scientifica, e quindi si opta per sparare nuclei atomici pesanti per creare isotopi utili alla radioterapia, o particelle elementari utili allo studio della meccanica quantistica (i moderni sincrotroni prendono il nome di elettrosincrotroni quando accelerano elettroni o positroni e protosincrotroni quando accelerano protoni o anti-protoni). Questa suddivisione ci introduce all’ultima categoria, ossia le energie raggiunte; si parla di acceleratori a basse energie quando sono inferiori a 100 MeV (per chi non ricordasse, un eV, leggi “elettronvolt” è l’energia che un elettrone possiede in un campo elettrico di 1 volt), a medie energie quando raggiungono 1 GeV e ad alte energie quando superano lo stesso valore.  Per instaurare un metro di paragone, il celeberrimo LHC (Large Hadron Collider) al CERN di Ginevra, con il suo anello di 27 Km, raggiunge i 14000 GeV. Risulta ovvio però che siano gli acceleratori ad energie più basse ad essere utilizzati in campo medico, e che, per raggiungere energie più alte, nei maggiori acceleratori si sacrifichi di molto l’ampiezza del flusso di particelle.

Ed ecco adesso alcune piccole curiosità: la “potenza” di un acceleratore è detta luminosità, e si misura in eventi per centimetro quadrato per secondo; l’acceleratore KEKB in Giappone raggiunge i 1035 eventi per centimetro quadro per secondo. L’energia massima raggiungibile nel Large Hadron Collider è circa 700mila volte maggiore di quella del primo modello ideato da Van de Graff. Anche il tubo catodico, che così tanto ha rivoluzionato il mondo della ricerca e dell’intrattenimento, non è altro che un piccolo acceleratore di elettroni.

Pubblicato da AppRodo

Questa è la pagina ufficiale del giornalino scolastico AppRodo del Liceo Scientifico e Linguistico Niccolò Rodolico di Firenze!

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